Non credere
Sono tornato in quel posto di cui ti parlavo un annetto fa.
Appena passate le ultime case, sotto lo spiazzo in cui fanno il cinema all’aperto, là dove c’è la finanza, c’è quel baretto.
Dalla sua piccola terrazza si domina la caletta, la scuola velica con le schiere di natanti, lo spiazzo in cui atterrano gli elicotteri (che però non ho mai visto), il canneto che – come ho scoperto – non nasconde solo il cimitero, ma anche un minuscolo sentiero di erba calpestata che permette di entrare nell’area archeologica senza biglietto.
Il bar è fin troppo semplice. Sull’insegna c’è un gabbiano, naturalmente cartoon, e nel retro un biliardino, scaldato a volte da braccia rissose e precocemente invecchiate dal sole.
Tutto lì è gentilmente fuori moda, e allude a un tempo in cui non c’erano preoccupazioni – che nel frattempo no, non sono ancora mai arrivate. La proprietaria, i suoi riccioli raccolti e le sue labbra innaturali, hanno l’aria di avere molte storie da raccontare. Forse banali storie di scappatelle estive, molti anni fa, o l’altro ieri.
Quando ero venuto qui per la prima volta, dalle due casse ai lati della terrazza, piccole quanto tutto il resto, veniva la voce di, non so, Mina? Sembrava la replica di una commedia in bianco e nero.
Oggi, finalmente, sorseggiando una spremuta d’arancia, ho scoperto il titolo di quella canzone: era “non credere”.