Il presepe in fondo al mare
Già mentre ero in treno, qualche giorno fa, avevo l’impressione di scivolare. Il mio vagone si immergeva, senza fatica ma con crescente flemma, nelle profondità dello stivale.
Era buio quando sono arrivato, e quando, muovendo il primo passo in stazione, ho sentito che il suolo aveva la consistenza di sabbia mobile. La prima domanda di mia mamma è stata “hai fame?”, e da allora non me l’ha più chiesto. L’ha dato per scontato, negando l’evidenza delle mie proteste e di gesti – come la mano sullo stomaco – da tempo svuotati di significato.
Poi questa casa mi ha inghiottito, assieme alla miriade di soprammobili, quadretti, servizi da dodici, piante e decorazioni natalizie che anni di maree hanno fatto sedimentare lungo le pareti. Sembra che il suo ventre non lasci via di scampo.
È in particolare il presepe a preoccuparmi. Ogni anno mi sembra più grande. Già quand’ero piccolo dava l’idea di crescere ad un ritmo superiore al mio. Ora occupa una buona fetta del salone, disegna cime innevate (di borotalco) e biforcazioni di sentieri (di lettiera di gatto), nasconde una caverna, un corso d’acqua, una villetta (credo abusiva), ed è popolato da una piccola, ma affezionata, comunità di pastori di diversa età e provenienza, le cui differenze di scala creano una vertiginosa profondità di campo.
Verrà giorno in cui – lo so – i pastori prenderanno il potere, ci renderanno attori viventi del loro presepe, e faranno della casa in cui sono nato la polverosa scenografia di una trita rappresentazione allegorica. Sempre che tutto ciò, a mia insaputa, non sia già accaduto da tempo.