L'atterraggio

Esco dal concerto, superando i poliziotti in divisa (ma che ci fanno qui?).

È una periferia sovietica, più che milanese: strade inutilmente larghe e case tutte uguali, talmente schive da non guardare fuori, disposte come sono a lisca di pesce.

Supero coppie di ragazzi troppo stretti nelle spalle, troppo rumorosi nel parlare, troppo vicini a quei personaggi da cronaca nera, da TG dell’una.

Seguo la lunga doppia fila di luci arancioni che mi porterà al tram: è la mia pista di atterraggio, ed io sono il turista appena sbarcato da un volo sbagliato.

Salgo sul tram. Dal fondo arriva solamente la voce di un tedesco, tutta sdegno e scheisse usati al posto della virgola. Dall’altro capo un gruppetto di ragazzi – scientemente assortiti nei tagli di capelli e nei decenni ai quali si ispira il loro vestiario – si scatta foto, flirta, ammicca.

Prima della mia fermata sono scesi quasi tutti. Scendo anch’io, e impegno gli ultimi metri a immaginare mete più azzeccate di questa.

Arrivo davanti ad un portone, e sembra che le mie dita sappiano già tutto: scelgono la chiave giusta al primo colpo, la infilano, la girano, spingono, e già dribblano verso la chiave successiva.

Sono il turista caduto qui per caso. E questa è casa mia.