Di pietra
Non ho mai – realmente – conosciuto mio nonno. Intendo quello dei due che avrei potuto conoscere. L’altro è scomparso poco prima che io nascessi. Lui invece ha atteso il mio sesto anno d’età.
Mi è stata da poco rivelata una cosa: lui scriveva. Poesie.
Beveva molto mio nonno, litigava con mia nonna, si chiudeva al piano di sopra, nella sua casa, l’ultima del paese andando verso la cresta del monte, e scriveva. Cosa, non lo saprò mai: i suoi scritti erano conservati dentro un sacco, e così com’erano sono stati presi ed affidati al cassonetto, assieme agli altri oggetti quotidiani e banali scartati dal novero dei ricordi.
Non credo fossero granché le sue poesie, ispirate dall’alcool e scritte in un chiuso dialetto tutto apostrofi. Ma che sapore potevano mai avere le sue parole?
Avete presente il paese di mio nonno? Si stende tutto in verticale, aggrappato come può alla parete della montagna, e ogni cosa lì è di pietra: le case, le strade, il paesaggio attorno, il cielo, gli zigomi, la lingua, le parole che ci si scambia – urlando sempre un po’, con chiunque, ma non per rabbia.
Le sue parole forse erano pesanti come sugna, acidule e persistenti come vino d’inchiostro, scioccanti come formaggio coi vermi. Non riesco a immaginarle dolci come cartellate, ma può darsi che lo fossero.
Non l’ho veramente conosciuto, mio nonno, né conoscerò mai le sue poesie, ma immagino questo: se metto una metropoli al posto del suo paesello, un modesto bicchiere di rum invece del fiaschetto di vino, la tastiera di un portatile dove c’era una matita, mi sento un po’ come lui, armato di sole parole contro tutta la pietra qua attorno.