Il filo del percorso
“Seguimi, so la strada” – dicevo.
Era falso, ma non mentivo. La strada che avevo in mente era quella bianca e gialla, col nome scritto sopra, che passava attraverso blocchi di uniforme grigio chiaro. Era quel centro città che vedevo disegnato sul telefonino: senza passanti, senza vetrine, ma soprattutto senza te. Una strada privata di passi e di esitazioni.
All’inizio tutto mi sembrava così chiaro. Inutile controllare la mappa, bastava mantenere la giusta direzione. E parlavamo, scambiandoci battute a passo sostenuto, deviando di tanto in tanto, distratti da uno scorcio curioso, o dal capriccio di un incrocio.
Le strade principali spingevano in linea retta gli innumerevoli passeggiare, per riprendere fiato solo nelle piazze. Lì parlavamo poco, il brusio attorno diceva già troppo. Riprendevo allora il discorso nelle strade laterali, davanti alle ipsilon dei bivi, nei sottoquartieri irregolari, sfuggiti al fascismo ortogonale della pianificazione.
A volte però qualcosa non tornava, e rimanevamo muti. Passando per la terza volta davanti allo stesso ristorante, ero ormai sicuro di aver perso il filo. Mi avevi seguito ciecamente, senza avere idea di dove stessimo andando, forse senza alcuna intenzione di raggiungere alcunché.
Cercavo di guidarti in una città che io stesso non conoscevo, forte del fatto che se esiste una mappa, esiste un punto di vista a volo d’uccello, dal quale sembriamo solo due teste impegnate nel loro percorso. E dal quale è facile scoprire una via di fuga, che ti è sempre sfuggita, e di questo andavo ragionando assieme a te.