Il funambolo
Il servizio civile l’ho fatto in un museo. Non so se potevo definirmi più guardiano o più guida. Il mio lavoro consisteva nel gironzolare tra le sale (ma solo se mi andava), indicare la collocazione dei bagni, inventare risposte credibili a domande lecite ma fastidiose, e, quando andava male, salire e scendere la scala a chiocciola della torre della Specola, aprire e chiudere porte e tende.
Quando andava bene, ovvero quando la stagista si rassegnava a coprirti, potevi fuggire con colleghi, amici o amanti in cima alla torre, tenere sott’occhio le vie del quartiere universitario, e fare tutto ciò che si può voler fare di nascosto ma con l’inconfessata speranza di essere ammirati da tutti.
Quel periodo è stato una parentesi immobile tra due orizzonti: la vita universitaria sulla quale infuocava uno struggente tramonto, e la vita lavorativa ancora fredda e oscura ma piena di stelle.
Dalle grandi finestre della sala dei libri, nell’aria fresca e secca prodotta a beneficio di quei tomi settecenteschi – e del mio umore, nelle giornate estive – mi fermavo spesso a guardare il cortile in basso, popolato da un roccioso Ercole e da molli studenti intenti a sfumacchiare e divorare piadine.
Mi sembrava di vedere, tra la mia finestra e quella di fronte, un filo semitrasparente. E se vedevo quel filo, vedevo anche me con un’asta in mano, poggiare un piede davanti all’altro e sperare di non cadere. Non dovevo fare altro che passare, quasi in trance, ingoiando i brividi e rifiutando di guardarmi alle spalle.
E così passarono quei dieci mesi.